6 aprile 2020

KENODOXIA



L'inflazione dell'ego è la storia della rana che vuole farsi grande quanto il bue... La ritroviamo all'origine di molte paranoie positive o negative in cui l"io" si crede perennemente oggetto di ammirazione o di denigrazione, senza aggancio con la realtà. Caratteristica di questa malattia è quella di mettere l'individuo al centro del mondo, come il bambino che esige l'attenzione di tutti gli sguardi.

Tutto ciò che succede è interpretato in rapporto a sé. L'"io" esige un riconoscimento assoluto in cui si profilano tutte le carenze e le frustrazioni del passato. Quanto maggiore è il suo senso d'insicurezza, tanto più avrà bisogno di vantarsi per prodezze o relazioni che lo confermino in una illusoria importanza. 

La vanagloria rende l’individuo particolarmente irritabile e suscettibile non appena la bella immagine che il suo “io” ha di sé viene messa in discussione; una semplice osservazione e si sente odiato e perseguitato; un leggero sorriso ed è il mondo intero che riconosce il suo genio.

Nel deserto, queste caricature sono più sottili, ma la radice del male è la medesima. L’”io” si arroga le prerogative del Sé; il piccolo uomo si crede Dio; gioca d’essere come Dio, il che gli impedisce proprio di essere Dio e di essere se stesso.

Evagrio ci dice che il monaco tormentato dalla “kenodoxia”  immagina di essere diventato un sublime essere spirituale; stando alla bellezza delle sue visioni, ai primati dei suoi digiuni, come potrebbe dubitare della sua santità? Ben presto i malati accorrono, i peccatori vengono a bussare alla sua porta e con un solo sguardo egli li converte… Si crede Cristo e questo atteggiamento gli impedisce proprio di essere Cristo, perché per essere Cristo non bisogna preoccuparsi di se stessi, ma amare Dio e amare gli uomini come lui stesso li ha amati.

In questo amore, diceva Origene, è il Logos che nuovamente si incarna. Noi diventiamo per Lui una “umanità in aggiunta”, dirà più tardi Elisabetta della Trinità.
La “kenodoxia” rende l’uomo sempre più egocentrico, il che gli impedisce di rimanere in posizione teocentrica o Cristocentrica, gli impedisce cioè di considerare il Vivente, “l’Essere che veramente È”, come autentico centro. “Non sono io che vivo, è Cristo che vive in me”, diceva san Paolo. 
È esattamente il contrario di: “Cristo, sono io”.

Secondo Evagrio, la “kenodoxia” fa sognare il monaco di diventare prete; oggi questo ci può stupire, ma a quell’epoca il sacerdote era rivestito di tale dignità che ogni monaco doveva reputarsi indegno di una tale grazia. Voler diventare prete, allora, era il colmo della vanità.

Il rimedio alla “kenodoxia”, secondo Evagrio – e anche ciò ci può stupire – è la Gnosi nel suo significato di conoscenza. In effetti, non c’è niente come la conoscenza di sé che possa liberare da tante illusioni…
Chi siamo realmente? “L’uomo è come un filo d’erba: al mattino spunta, alla sera appassisce”.
Che cosa è questo mondo? “Una goccia di rugiada sull’orlo di un secchio”.

La conoscenza di sé, la conoscenza di ciò che si è, rimette l’uomo al suo giusto posto, nel suo status ontologico di creatura. “Che cos’hai tu che non abbia ricevuto?” Allora perché vantarsene invece di rendere grazie?
La Gnosi è anche la conoscenza di Dio, la conoscenza dell’Essere, ciò che, mediante il discernimento, libera dal potere di “ciò che non è”. “Gli angeli sono molto più umili degli uomini perché sono molto più intelligenti”.

La vanagloria è segno di non conoscenza, non solo di sé, ma della realtà ultima che relativizza tutte le altre realtà.
Quando, attraverso la Gnosi, veniamo liberati dal demone della “kenodoxia”, rischiamo di ritrovarci con “lupé” o “acedia”, cioè non siamo più ciò che credevamo di essere…  Sperimentare il fallimento delle proprie illusioni può essere penoso, ma è meglio questo che essere condotti poco a poco verso quella “demenza” che è “uperephania”, perché “come la luce del lampo precede il rumore del tuono, così la presenza della vanagloria annunzia l’orgoglio”.