27 marzo 2020

ACEDIA


Più triste della tristezza, “l’acedia” è quella forma particolare della pulsione di morte che introduce il disgusto e la stanchezza in tutti i nostri atti. Conduce alla disperazione, talvolta perfino al suicidio.
Nel linguaggio contemporaneo, parleremmo di depressione o di melanconia nell’accezione clinica del termine. Gli antichi Padri la chiamavano anche “il demone di mezzogiorno” e descrivevano con precisione quello stato in cui l’asceta, dopo aver conosciuto le consolazioni spirituali dell’inizio e il combattimento ardente della maturità, rimette in discussione tutto il suo cammino. È il grande dubbio: “Non avrò esagerato? A che serve tutto questo tempo passato nel deserto?” 
Non si prova più alcun piacere nella liturgia e negli esercizi spirituali e Dio appare come una proiezione dell’uomo, un fantasma, un’idea frutto di umori infantili; meglio allora lasciare la solitudine, essere utile nel mondo, fare qualcosa. Qualche volta “il demone di mezzogiorno”        inciterà l’uomo casto e sobrio a recuperare il tempo perduto nel campo della sessualità e delle bevande forti.

Anche Jung, nel suo processo di individuazione, ha descritto bene quel momento di crisi in cui l’uomo, spesso verso la quarantina, rimette in questione la sua vita. È un periodo in cui si può manifestare con violenza il ritorno di ciò che è stato represso, ma può essere anche il momento chiave di un passaggio verso una realizzazione più alta. Ai valori “dell’avere” si sostituiscono I valori “dell’essere” i quali orientano ormai la vita dell’uomo non più verso l’affermazione dell’ego ma, al contrario, verso la sua relativizzazione e la sua integrazione nell’archetipo della totalità che Jung chiama il Sé. Questo periodo è caratterizzato particolarmente da depressione. Tutti gli antichi sostegni o le antiche sicurezze vengono a mancare e niente sembra sostituire il bell’edificio crollato; se si cerca un aiuto o un conforto, ciò non fa che accrescere la disperazione e il sentimento di totale incomprensione al quale pare di essere condannati. 
I Padri del deserto raccomandano di pregare molto per quelli che sono colpiti da acedia: non si può fare altro. Consigliare il lavoro manuale non è poi di grande aiuto. Occorre tuttavia occupare la mente in mansioni semplici. Vivere il momento presente senza aspettare nulla né dal passato né dall’avvenire. “Ad ogni giorno basta la sua pena”. Al culmine dell’angoscia si tratta di tenere duro.  È il momento della fedeltà. Amare Dio non è più sentire che lo si ama, ma volerlo amare. È anche entrare nel deserto della fede. Si crede perché “si vuole” credere. I soccorsi della ragione sono come stampelle già bruciate nel fuoco della fatica e del dubbio. È il momento della maggiore libertà, in cui si può scegliere Dio o rifiutarlo.
È stato il demone  dell’acedia che si è impadronito di Giuda e di Pietro nel momento del loro tradimento? Molto probabilmente. Esso ha vinto Giuda e lo ha condotto alla disperazione e al suicidio: Giuda ha dubitato della misericordia di Dio. Pietro invece lo ha vinto in un atto di pentimento. Ha creduto che se il suo cuore lo condannava, Dio era più grande del suo cuore.
L’acedia può condurci all’inferno, nel senso che ci rinchiude in noi stessi. Non esiste più apertura o varco per l’amore. Non esiste più desiderio del desiderio dell’altro.

Di nuovo, I Padri ci ricordano che questa tentazione passerà; dura talvolta più a lungo delle altre, ma come tutto ciò che passa, passerà: non c’è dolore eterno, e colui che resiste deve sapere che questo demone non è seguito immediatamente da alcun altro; dopo la lotta subentra nell’anima uno stato di pace e una ineffabile gioia.

(tratto da "L'Esicasmo" di Jean-Yves Leloup)