Ogni forma di frustrazione porta con sé un certo grado di tristezza, la “lupé”; ora, la vita cristiana è “gioia e pace nello spirito Santo”.
Se si vuole pervenire a questo stato di pace e di gioia ontologiche e non solamente psicologiche, bisognerà dunque lottare contro la tristezza e, di conseguenza, lavorare sulla frustrazione e sul “senso di vuoto interiore”.
Essere adulto è “assumere il bisogno”, ma l’ascesi del desiderio sta più nell’orientamento di questo bisogno che nella sua non soddisfazione.
Vivere volontariamente un certo numero di frustrazioni nell’ordine materiale, ma soprattutto nell’ordine affettivo, svuoterà sempre più il monaco fino a quell’infinito che soltanto l’infinito può colmare. “Ci hai fatti per te, signore, e il nostro cuore è inquieto fin quando non riposa in te”. (Sant’Agostino).
La tristezza visita il monaco allorché la memoria gli presenta, come nuovamente desiderabili, i beni o le gioie che volontariamente egli ha lasciato. Sogna una casa, una famiglia, sogna soprattutto di essere riconosciuto e di essere amato.
Lo spazio vuoto di ciò che manca è lo spazio stesso del deserto in cui si è ritirato, ma qualche volta il vuoto lasciato da ciò che manca è troppo grande, il deserto è troppo arido; il monaco non rischia forse di perdere la propria umanità? Egli cercava la gioia ed ecco la croce.
Quale rimedio per la sua tristezza?
Dapprima gli si chiederà di ritrovare lo “spirito di povertà”. Un ricco è qualcuno a cui tutto è dovuto; un povero è qualcuno che riceve tutto in dono. Nulla ci è dovuto! Noi potremmo non esistere. “Che cosa hai tu che non abbia ricevuto?”
L’amicizia, la felicità, la gioia non ci sono dovute. Lo spirito di povertà dovrebbe rendere il monaco capace non soltanto di assumere le frustrazioni che patisce (e dunque capace di diventare adulto), ma anche di apprezzare le minime cose nella loro gratuità… un raggio di sole, un po’ di pane e di acqua… Poco a poco egli dovrebbe imparare ad accontentarsi – “desidera ciò che hai e avrai ciò che desideri” - ma questo accontentarsi non è ancora gioia. La gioia si trova nello sperimentare in fondo all’essere che il transpersonale verso il quale il monaco ha rivolto il proprio desiderio dimora qui e ora: “Egli È” e la gioia che può dare nessuno può toglierla.
È chiaro che qui non siamo più nella sfera del sensibile, dell’affettivo o del ragionevole, ma in quella dell’ontologico. Per i Padri, solo quando si è riusciti a fissare con il desiderio la propria gioia in questo fondo ontologico, essa può sprigionarsi in modo duraturo in tutto l’individuo.
Questa gioia, allora, non dipende più dalle cose esteriori, da ciò che ci succede, dalla presenza rassicurante di un oggetto, di una persona, o da circostanze favorevoli; non è più una questione di salute o di umore, ma di fedeltà alla Presenza Increata che abita ogni uomo. È la gioia che prende dimora nel profondo dell’uomo.
Qui siamo nel transpersonale. Questa gioia non è l’allegria o la gaiezza di un temperamento predisposto naturalmente all’ottimismo e al buon umore, ma la tranquillità profonda di chi incontra l’altro non per colmare i propri vuoti, martedì il piacere di entrare in comunione con la vita che li unisce e li trascende.