Baserò quest’articolo su
una scrittura del nuovo testamento che si trova nel libro di Efesini al
capitolo 4, verso 25:
“Perciò, ora che avete allontanato la falsità, dite la verità
ciascuno al suo prossimo, perché siamo membra appartenenti gli uni agli altri.”
Osservando in questi
ultimi anni il mio personale comportamento e quello dei miei simili è stato
piuttosto facile notare la comune tendenza di ricadere in un atteggiamento
mistificatorio rispetto al dolore che ognuno sperimenta, l’angoscia
esistenziale che attanaglia tutti coloro che sono lontani dal Creatore e da se
stessi.
Ci telefoniamo, ci
incontriamo per strada e la prima cosa automatica che diciamo è “come va? come
stai?” Ma la verità è che non ci importa un bel niente di sapere come sta la
persona a cui rivolgiamo questa domanda, né chi risponde è in grado di essere
sincero in merito alle proprie reali condizioni interiori, e quindi, mentendo,
dirà “bene, grazie, e tu?”
Con i social network,
luogo ideale della menzogna, accade la stessa cosa.
Gruppi – o forse sarebbe
meglio dire branchi - di persone che s’incontrano senza incontrarsi mai davvero
e che dicono sempre il falso a se stessi e agli altri scambiandosi centinaia di
ridicoli “mi piace”o le solite foto di tramonti, gattini e cagnolini o primi
piani che li ritraggono in pose dove sorridono manifestando una finta gioia.
Andrea Panatta, nel suo
bel post del 26 giugno 2014, mette in risalto
anche l’aspetto del narcisismo quando dice….”scriverai frasi fiche su
facebook per convincere te stesso e gli altri che hai capito, che stai
lavorando su te stesso, che sei sulla strada... senza capire che questa è
l'ennesima trappola della mente, l'ennesimo scherzo dell'intelletto”.
Nessuno conosce se stesso
ma avverte comunque un disagio che non sa identificare con chiarezza e non deve
mai essere palesato agli altri componenti della società che smetterebbero
immediatamente di considerarli della loro cerchia se dicesse il vero, cosa che
rischierebbe di porli in contatto col dolore che, a fatica e costantemente
annegano nel loro mare scuro.
Anni fa ho provato ad
affrontare in modo deciso e psicomagico il mio mare nero, le mie paure profonde
e sconosciute, ciò che ho ereditato dal mio albero genealogico.
Avevo già da tempo cominciato
a frequentare i seminari di Alejandro e Christobal Jodorowsky, coloro che
considero ancora adesso fra i migliori insegnanti di risveglio interiore. Nei
primi anni mi venivano affidati degli atti da compiere aventi lo scopo di sciogliere
i miei schemi di pensiero, i traumi che rappresentavano i nodi esistenziali che
la mia famiglia non era stata in grado di sciogliere; si tratta di episodi che
in realtà appartengono praticamente a tutte le famiglie, e cioè traumi come
aborti, stupri, omicidi, violenze domestiche e violazione della propria sacra
identità. Parallelamente svolgevo già da anni un lavoro di osservazione su me
stesso iniziato grazie alla frequentazione del Centro Studi Acquariani, fondato
in Liguria da Massimo Bianchi e ciò mi aiutava ulteriormente a scoprire i miei
automatismi inconsci e quindi invisibili all’uomo comune.
Ero entrato in contatto
con alcuni dei miei nodi da sciogliere e ora finalmente mi sentivo in grado di
cominciare a “camminare con le mie gambe”. Decisi quindi autonomamente il tipo
di atto psicomagico che avrebbe potuto aiutarmi.
Avevo una barca a vela di
dieci metri ormeggiata nel porto di Lavagna che utilizzavo per lavoro ma anche
e soprattutto per diletto. Sebbene sia nato in Liguria, a pochi metri dalla
spiaggia di Quinto, in provincia di Genova, non avevo alcuna esperienza di come
sfruttare il vento perché avevo sempre avuto solo motoscafi a motore. Inoltre,
sebbene papà Francesco mi avesse insegnato a nuotare portandomi con sé nelle
sue battute di pesca subacquea in apnea, il mare m’incuteva ancora timore. Marco,
un mio amico skipper, si offrì di insegnarmi i primi rudimenti della
navigazione a vela; io accettai volentieri ma sentivo che avrei imparato meglio
se avessi sciolto gli ormeggi e fossi uscito dal porto da solo.
Così un giorno, al
tramonto, quando tutti le altre imbarcazioni rientravano, presi la decisione di
imparare da solo a gestire la mia barca ed insieme le mie paure.
Dovete sapere che d’estate,
nella Liguria di Levante, di giorno c’è bonaccia, cioè vento ce n’è pochissimo
o niente del tutto, mentre invece quando fa scuro è possibile avere la soddisfazione
di veder gonfiare le proprie vele in un batter d’occhio.
Scelsi una notte senza
luna e mi diressi risolutamente verso il mare aperto; aperto si ma, vi garantisco,
ai miei occhi nero e minaccioso. Appena poco dopo aver passato la diga foranea
e il faro di segnalazione, spiegai prima la randa, la vela dell’albero maestro
e poi il fiocco; avevo molta ansia ma questo era niente in confronto alle
emozioni che mi avrebbero travolto di lì a poco.
Il vento già generoso –
sette/otto nodi – con una folata improvvisa, raddoppiò la sua velocità; i miei
occhi erano incollati al manometro situato davanti al timone cui mi aggrappavo
con forza; le mani, come rampini, pressoché congelate, il cuore che batteva
all’impazzata.
La paura, quella vera,
prese un’ulteriore impennata quando mi accorsi che non avevo indossato il
giubbotto di salvataggio; la normativa impone di averlo a bordo, non di
indossarlo. Io però avevo deciso di metterlo già prima di partire ma, ahimè, me
ne ero dimenticato!
Un’ulteriore folata portò
la velocità del natante a quasi 20 nodi; ora, io so che alla maggior parte di
voi questo numero dice poco o nulla, ma vi assicuro che per un velista
inesperto avere un vento di tale portata che gonfia le vele in modo violento è
una cosa veramente impressionante. Ormai il panico dilagava e il massimo
dell’intensità emotiva sopraggiunse quando la barca s’inclinò di circa 40/50
gradi sul fianco sinistro: “sto per scuffiare” pensai, che significa sto per
ribaltarmi! Non sapevo che la mia barca fosse in grado di tollerare simili
sollecitazioni; anzi, in seguito mi fu detto che, con il mio tipo di scafo,
studiato per situazioni estreme, anche in caso di rovesciamento, dopo aver
fatto un giro su se stesso, si sarebbe potuto rimettere in asse da
solo!
Finalmente, nel tentativo
di riprendere il controllo, riuscii a sciogliere il fiocco, abbassare un poco
la randa e prendere il vento solo in poppa: andavo veloce come un fuso, in
piena sicurezza!
aaah, che meraviglia! Il
livello adrenalinico si stabilizzò e capii che il mare, anche il più oscuro,
non era un’entità minacciosa ma un amico benigno.
Non so su quale
particolare trauma abbia lavorato in quell’avventura: il mio scopo era in un
certo senso “ripulire, ripulire, ripulire”, come afferma la disciplina di ho’
oponopono.
Ora non ho più paura di
uscire in mare, anche quando è molto burrascoso; giro per le zone più malfamate
di qualsiasi metropoli italiana, anche in piena notte, non provando alcun
timore perché mi sento sempre a casa, protetto e soddisfatto.
In conclusione, il morale
della favola è:
Imparate a togliere
l’antico freno a mano della vostra macchina biologica; sciogliete gli ormeggi e
osate andare nel mare aperto della Vita vera e non abbiate più paura del buio
che incontrate: con la luce del vostro sguardo rinnovato potrete illuminare
ogni zona d’ombra e aprire finalmente il vostro cuore.
Siatene certi.
Enrico D’Errico
egosumanima